Il legame tra mito e semiotica, inaugurato dalla stagione critica degli anni Cinquanta e Sessanta, è destinato a spezzarsi. Lo stesso gesto fondativo che aveva assegnato alla semiologia il compito di “demistificare i miti” si trasforma, nel giro di pochi anni, in un vincolo da superare. Ugo Volli ricostruisce con precisione questa svolta, che coincide con l’abbandono della prospettiva ideologica e il consolidamento della semiotica come scienza autonoma.
La frattura si compie negli anni Settanta, quando la disciplina prende congedo da Barthes, Althusser, Foucault e dall’intera galassia teorica del post-strutturalismo francese. Proprio mentre, nei paesi anglosassoni, si affermano i cultural studies come spazio privilegiato per la “critica dell’ideologia”, la semiotica continentale sceglie una strada diversa: quella della scientificità, della sistematicità, dell’analisi formale dei testi.
Secondo Volli, questa trasformazione è evidente anche nel cambio di nome: da semiologia (termine usato da Barthes) a semiotica (termine prediletto da Greimas). Un cambiamento che non è solo terminologico, ma segnala un vero e proprio divorzio epistemologico. Le nozioni di “mito”, “ideologia”, “guerriglia semiologica” (Eco) escono progressivamente dal lessico della teoria per restare confinate nella sfera della propaganda, o della critica culturale militante.
Il paradosso è che proprio un testo come Mythologies di Barthes, così decisivo per la nascita della disciplina, diventa il simbolo di un passato da oltrepassare. Volli nota come, in un primo momento, Mythologies faccia coincidere «semiologia» e «mitologia», salvo poi prendere le distanze da tale sovrapposizione. Non perché il mito sia un oggetto secondario, ma perché è mitico lo stesso approccio ideologico che pretende di decostruirlo.
La semiotica scientifica, così come si è andata affermando con Greimas e i suoi eredi, rifiuta le generalizzazioni ideologiche e cerca strumenti analitici rigorosi. I miti, in questa nuova visione, tornano nei confini originari dell’etnologia, della storia delle religioni, dell’antropologia. La semiotica, invece, si concentra su testi singoli, su modelli narrativi, su funzionamenti enunciativi.
Volli chiarisce che il mito non viene espulso perché irrilevante, ma perché troppo carico di ideologia, anche quando lo si affronta per criticarlo. In un certo senso, è il concetto stesso di mito a rivelarsi instabile, ambiguo, rischioso per una scienza che ambisce alla neutralità analitica.
Così, la disciplina si sviluppa non nonostante l’abbandono del mito, ma grazie a esso. La mitologia, intesa come critica ideologica, resta sullo sfondo. La semiotica cerca altre strade, forse più modeste, ma anche più controllabili. E il mito, da fondamento teorico, torna a essere ciò che era all’inizio: un oggetto affascinante ma sfuggente, da trattare con cautela, da osservare da lontano.
Riferimento bibliografico: U. Volli, Dalla semiotica del mito al mito della semiotica