Il tema della soggettività, scrive Guido Ferraro, si presenta oggi in semiotica come “particolarmente aggrovigliato”. La complessità deriva tanto dalla difficoltà di definire il concetto stesso di soggettività, quanto dal rapporto incerto tra il punto di vista interno alla disciplina e le percezioni esterne sul valore delle sue pratiche. Ferraro osserva come le analisi dei semiotici, a differenza di quelle sociologiche basate su “dati concreti”, siano spesso giudicate “affascinanti ma incurabilmente soggettive”.
Tuttavia, a dispetto degli sviluppi successivi, Ferraro afferma con chiarezza che “la semiotica nasce, all’inizio, come scienza della soggettività”. Peirce, pur nella complessità e ambiguità della sua posizione, formula una definizione della semiosi in cui il segno è concepito come “qualcosa che per qualcuno…”. La relazione segnica, dunque, si istituisce nella mente dell’interprete e dipende dalla sua personale prospettiva: si tratta, precisa l’autore, di una prospettiva radicalmente soggettiva. Claudio Paolucci, ripreso da Ferraro, scrive che “la semiotica si definisce innanzi tutto per la scoperta di un terzo ordine situato al di là, o al di qua, di quello dell’oggettività dei fatti e delle loro rappresentazioni teoriche”.
Secondo Ferraro, tuttavia, questo impianto soggettivista non è stato portato avanti nei livelli dipendenti della teoria. La definizione di icona, ad esempio, è stata intesa principalmente come una somiglianza oggettiva, piuttosto che come una relazione analogica “agli occhi di qualcuno”.
Nonostante l’iniziale apertura alla soggettività, Peirce manca, secondo Ferraro, di due elementi fondamentali: la nozione di “classe” e la centralità della dimensione sociale. In questo senso, la prospettiva peirceana risulta meno rilevante rispetto a quella saussuriana. Saussure colloca infatti la semiologia in uno spazio d’intersezione tra psicologia e società, inaugurando l’idea di una soggettività sociale, che Ferraro considera centrale non solo per le scienze umane, ma anche per l’evoluzione narrativa, sociale e tecnologica del Novecento.
Questa apertura iniziale, però, non si è mantenuta nel tempo. Ferraro segnala come nei decenni successivi si sia affermata una tendenza “formalista e desoggettivante”, culminata con l’indirizzo hjelmsleviano. La glossematica, pur nella sua raffinatezza astratta, ha contribuito a sottrarre i meccanismi semiotici dal “quadro della vita sociale” evocato da Saussure.
La stagione di massima crescita della semiotica, negli anni Sessanta e Settanta, coincide con il trionfo di un neo-oggettivismo modernista, in sintonia con la cultura industriale. In quel periodo, il concetto di senso viene progressivamente assimilato a quello di “riferimento”, il valore semantico alla “funzione”. È l’epoca in cui, nota Ferraro, si sviluppa un entusiasmo diffuso per le “strutture nascoste nelle cose”, con conseguente spostamento dell’attenzione sul testo e la sua apparente oggettività.
Oggi, scrive Ferraro, il superamento della centralità del testo coincide con il declino delle prospettive oggettivanti. La riscoperta della “sociosemiotica” permette di tornare alle radici soggettiviste della disciplina. In quest’ottica, Ferraro propone la formula di “semiotica neoclassica”, utile a indicare una rilettura attuale del pensiero dei grandi maestri.
“Uso, in proposito, la designazione di una ‘semiotica neoclassica’, che mi pare possa rendere l’idea di questa rivalorizzazione del pensiero dei grandi maestri in chiave attuale”.
Riferimento bibliografico:
Cinque tipi di soggettività in semiotica, Guido Ferraro