Tarcisio Lancioni sottolinea come la riflessione sull’etnosemiotica sia scaturita inizialmente da una motivazione pratica più che da un’intenzione teorica: comprendere, nell’ambito delle ricerche di mercato, la differenza tra le pratiche raccontate — ovvero le azioni descritte dai soggetti in interviste e focus group — e le pratiche praticate, osservabili direttamente nel loro svolgersi.
Queste due modalità risultano divergenti, non solo nei ritmi o nelle strutture narrative, ma anche nei valori, nelle motivazioni e nella distribuzione dei ruoli attanziali. Il racconto dell’attore risente della presenza dell’intervistatore, producendo una rappresentazione razionalizzata del comportamento, ma è condizionato anche da meccanismi di rimemorazione e selezione che ristrutturano l’evento secondo un modello di coerenza.
Al contrario, l’osservazione diretta mostra un quadro molto più complesso: esitazioni, ripensamenti, distrazioni, cambi di traiettoria, momenti di seduzione e di rifiuto, elementi che segnalano la fluidità e l’eterogeneità delle pratiche effettive. Per affrontare questa discrepanza, Lancioni adotta una prospettiva metodologica ispirata all’etnologia e all’etnolinguistica, cercando di “capire cosa succede davvero”, ad esempio davanti a uno scaffale o dentro un negozio.
L’ambiente stesso viene considerato come una “semiosfera locale” che orienta l’esperienza attraverso diversi livelli di manipolazione semiotica: l’esposizione dei prodotti, l’organizzazione dello spazio, la segnaletica, la presenza di altri attori, i discorsi che veicolano norme implicite e giudizi di valore. In questo scenario, il soggetto delle interviste — razionale e coerente — si dissolve, lasciando il posto a un soggetto “molteplice”, preso in un flusso interpretativo, manipolato e manipolante, che interagisce continuamente con oggetti, spazi e persone.
L’etnosemiotica, secondo Lancioni, può allora essere definita come “la pratica virtuosa di questo sguardo ‘doppio’, forzatamente strabico”, capace di cogliere da un lato gli schemi culturalmente sedimentati — ciò che altre discipline chiamano frames o forme ritualizzate — e dall’altro la peculiarità semiotica dell’evento singolare, con le sue costrizioni e i suoi slittamenti.
Il confronto con la situazione concreta permette di mettere in luce lo scarto tra configurazioni “tipo” e comportamento effettivo. Tale scarto non corrisponde a un’opposizione tipo/token: il comportamento non è una semplice esecuzione di uno schema, ma si sviluppa in un campo di possibilità, in costante negoziazione con i vincoli e le aspettative. Come ha ricordato Franciscu Sedda, in discussione con Rosaldo e Bourdieu, non si può ridurre l’agire a regole fisse, ma nemmeno considerarlo completamente arbitrario.
Da questo punto di vista, una delle direzioni più interessanti dell’etnosemiotica diventa lo studio dei meccanismi di normalizzazione, intesi come dispositivi diffusi di sanzione, valorizzazione e modellizzazione, che operano nelle interazioni quotidiane: sguardi, commenti, osservazioni, ma anche ruoli sociali e strutture istituzionali, come quelle che Michel Foucault ha esplorato in tutta la sua opera.
Il senso, allora, non è solo prodotto soggettivamente dall’attore che interagisce con gli oggetti e con gli altri, ma anche posto dalla società tramite schemi predefiniti di valore e di azione. Ed è proprio in questa tensione che si gioca la posta dell’etnosemiotica, chiamata ad esercitare “quello sguardo doppio, volutamente ‘strabico’” che le è peculiare.
Riferimento bibliografico: Tarcisio Lancioni, Etnosemiotica. O dello strabismo semiotico, 2015