Il Nasobēm avanza con grazia, poggiato sul suo naso, seguito dal suo piccolo. È una creatura immaginaria, ma non un mostro: è una specie. Con questa affermazione, il poeta tedesco Christian Morgenstern, nel componimento Das Nasobēm (1905), mette in discussione il confine tra finzione e realtà naturalistica, tra creazione poetica e classificazione zoologica. Il nome stesso dell’animale – una combinazione di nasus (latino per “naso”) e bem (dal greco “camminare”) – imita le convenzioni linguistiche della zoologia scientifica. Ma la creatura non è registrata né nella Brehm, né nella Meyer, né nella Brockhaus, enciclopedie di riferimento per le scienze naturali dell’epoca.
Il Nasobēm, dunque, non esiste secondo la scienza, ma esiste nella poesia. E qui, come osserva Massimo Leone, comincia la riflessione semiotica: “Cela a été imaginé, donc cela existe” — “è stato immaginato, dunque esiste”. L’ironia del testo non si limita a celebrare la potenza creativa della parola poetica, ma suggerisce qualcosa di più profondo: anche la scienza naturalistica costruisce la realtà attraverso codici, non la scopre in modo diretto. La vita, il movimento, la morfologia o la riproduzione sono attributi che non derivano dalla semplice osservazione, ma da modalità semiotiche condivise, depositate nella memoria culturale. È la zoologia stessa, osserva Leone, a rivelare un potere poetico: i suoi esseri non sono scoperti, ma costruiti adottando codici figurativi accettati socialmente.
A questa intuizione fa eco, con paradossale rigore, il trattato Bau und Leben der Rhinogradentia (1961), firmato da un certo Harald Stümpke, in realtà pseudonimo del celebre zoologo tedesco Gerolf Steiner. Il libro descrive, con apparente precisione scientifica, l’anatomia e le abitudini di una famiglia immaginaria di mammiferi: i rhinogradi. Ogni dettaglio – dai nomi latineggianti (Monorrhina, Archirrhiniformes) alla geografia inventata (Heidadaifi, Mairuwili) – è costruito secondo i canoni del linguaggio zoologico post-darwiniano. Le specie sono classificate in base al numero di nasi; ogni voce segue lo schema tassonomico, la descrizione comportamentale e persino la formulazione prudente e impersonale della scrittura accademica. Il Nasobēm stesso viene “naturalizzato”: viene classificato come Nasobema lyricum, e il ritmo del verso poetico viene letto come un riflesso della sua andatura.
L’intento non è quello di generare un effetto mostruoso: come nei bestiari medievali? Al contrario, l’effetto di realtà è prodotto proprio grazie alla piena adesione ai codici del naturalismo scientifico. L’uso della lingua e delle convenzioni discorsive della zoologia consente al lettore di “credere” nella realtà del rhinograde, non perché sia ingannato, ma perché riconosce i segni linguistici e iconici dell’autenticità.
Ma il dispositivo veridittivo non si ferma al discorso verbale. La potenza della rappresentazione naturalistica, ricorda Leone, si esercita anche attraverso le immagini. Le tavole illustrate da Steiner seguono esattamente i criteri dell’iconografia zoologica tra XIX e XX secolo: disegno in bianco e nero, tratti essenziali, rappresentazione accurata dell’habitat, visualizzazione dinamica del comportamento. La somiglianza stilistica con le illustrazioni delle enciclopedie scientifiche dell’epoca non è casuale: è un’aderenza metodica a un codice visivo condiviso.
Come mostrano gli studi di Françoise Bastide, Bruno Latour e Maria Giulia Dondero, l’iconografia scientifica non è una fotografia della realtà, ma una costruzione codificata. Le immagini di Steiner, proprio perché aderenti a questo codice, rivelano il meccanismo semiotico della costruzione della natura: anche quando guardiamo un disegno naturalistico “serio”, non vediamo la natura in sé, ma la sua rappresentazione, organizzata secondo criteri storici, culturali, epistemici.
In questo senso, la vérifiction — termine che designa la commistione tra veridizione e finzione — mostra come le scienze naturali condividano con la poesia la stessa necessità di passare attraverso il linguaggio. Anche quando ci sembra di essere di fronte a una “descrizione oggettiva”, siamo già dentro a una mise en discours, a una teatralizzazione dell’essere naturale resa possibile dalla nostra competenza semiotica. Non si tratta di dire che la natura non esiste, o che tutte le classificazioni sono arbitrarie. Ma piuttosto di riconoscere che la natura, per esistere nella nostra comprensione e percezione, ha bisogno di essere narrata, figurata, segnata. E ciò vale tanto per il Nasobēm quanto per i rhinogrades.
Riferimento bibliografico: Massimo Leone, « “Vérifictions” naturelles », Actes Sémiotiques, n°131, 2024.