Uno degli effetti testuali più celebri e discussi nella letteratura semiotica è quello cosiddetto di realtà, concettualizzato da Roland Barthes nel saggio L’effet de réel (1968). Isabella Pezzini ripercorre l’origine e le implicazioni di questo effetto, a partire da una critica alla nozione tradizionale di mimesi.
Se già i formalisti e la narratologia avevano posto in secondo piano la funzione rappresentativa del linguaggio, privilegiando l’organizzazione narrativa astratta rispetto alla particolarità estetica, Barthes attira l’attenzione su elementi apparentemente “inutili” all’interno del testo letterario: il barometro descritto da Flaubert, la porticina annotata da Michelet. Questi dettagli marginali, privi di una funzione narrativa evidente, sembrano sfuggire all’analisi strutturale tradizionale. Eppure, secondo Barthes, è proprio in essi che si manifesta l’illusione di realtà.
Per la retorica classica, la descrizione possiede una funzione estetica: l’ekphrasis, ad esempio, non ambisce a rappresentare il reale, ma a suscitare ammirazione attraverso regole condivise di verosimiglianza estetica. Al contrario, il realismo moderno – che pretende di esibire il reale nella sua pura presenza – elimina la necessità di una struttura o di una funzione narrativa. Il dettaglio realistico viene così presentato come “bastante a se stesso”, indice diretto di un referente.
Barthes chiama illusione referenziale questo meccanismo semiotico, in cui il significato è espulso dal segno, e il segno stesso si riduce a una connessione diretta tra significante e referente. Il risultato, secondo Pezzini, è una rottura rispetto alla concezione classica del verosimile: il realismo moderno si configura come un nuovo tipo di verosimiglianza, fondato non più su convenzioni rappresentative, ma sull’autenticazione referenziale.
Questa forma di effetto si avvicina, anche nel linguaggio comune, a fenomeni percepiti come reali ma privi di oggettività, come gli effetti ottici o i trucchi scenici. L’effetto, in questo contesto, diventa un artificio orientato a produrre un’impressione soggettiva intensa: immagini di grande effetto, parole d’effetto, finali a effetto.
È su questo sfondo che Umberto Eco analizza l’ipotiposi, figura retorica capace di “far vedere” attraverso il linguaggio, sottolineando come l’efficacia del testo dipenda da una cooperazione interpretativa specifica. Questa cooperazione implica una strategia di lettura attesa, e una lettura attualizzata, realizzata. Il lettore completa attivamente le configurazioni offerte dal testo, come mostrano anche i meccanismi esaminati in Lector in fabula, dove gli effetti si fondano sulla tensione tra fabula e intreccio.
Tuttavia, alcuni effetti dipendono anche dai contesti pragmatici o da intenzionalità particolari di lettura (decodifica aberrante, misreading, decostruzione). In questi casi, l’effetto diventa espressione della strategia significativa, che può implicare anche uno scollamento tra essere e apparire.
Pezzini cita a questo proposito la metafora del “colpo ad effetto” – come nel gioco del biliardo – per descrivere l’artificio testuale che disorienta il destinatario. Un esempio paradigmatico è la trilogia cinematografica The Matrix, in cui la realtà si rivela come una delle tante possibili allucinazioni. Il testo, in questo caso, genera un effetto così potente da sospendere l’incredulità e far dimenticare la distinzione tra realtà e finzione.
Il racconto Continuità dei parchi di Cortázar, commentato da Greimas, racconta proprio di un lettore che, immerso nella sua poltrona, viene pugnalato dai protagonisti del romanzo che sta leggendo. Si tratta di una rappresentazione simbolica della catarsi tragica, ma anche della continuità fra reale e immaginario, dove il mondo reale si alleggerisce e quello fittizio impone la propria verità.
Riferimento bibliografico: Isabella Pezzini, L’efficacia del testo. Effetti e affetti nella semiosi