Claudio Paolucci descrive come Umberto Eco elabori l’idea di “guerriglia semiologica” a partire dalla sua esperienza di intellettuale impegnato nella critica dei media. Eco, scrive Paolucci, avvertiva con forza “che il compito dell’intellettuale – e quindi anche e innanzitutto il suo – è quello di lavorare in favore di ciò che all’epoca si chiamavano ‘le masse’, che erano oggetto di una vera e propria manipolazione da parte della ‘cultura alta’”. La funzione critica e pedagogica dell’intellettuale emerge in particolare negli interventi pubblicati da Eco su riviste e quotidiani, dove si preoccupava di “insegnare il ‘gioco dei media’, perché non soccombessero al potere della manipolazione dell’informazione e della costruzione del consenso”.
Paolucci richiama l’attenzione su un passaggio emblematico: “non si dà una notizia se non interpretandola”, osservava Eco, “se non altro per il fatto di sceglierla”. E proseguiva: “un giornale si fa coi titoli, col loro corpo e col loro carattere, con l’impaginazione e il taglio dell’articolo, con la collocazione in una pagina piuttosto che in un’altra e con tante altre cose. A livello di ciascuno di questi elementi abbiamo altrettanti interventi interpretativi”. Tale analisi, spiegava Eco, serviva “non solo perché lo sappia il giornalista […], ma perché lo sappia anche il pubblico”.
Nasce qui l’idea di “guerriglia semiologica”: “un’azione coordinata e continua di opposizione dei propri significati e delle proprie pratiche rispetto ai significati e alle pratiche che la fonte del messaggio vorrebbe attivare con la sua stessa attività di comunicazione”. Paolucci sottolinea che si tratta di una forma di devianza dei destinatari rispetto ai significati stabiliti dalla fonte, finalizzata a “ridare agli esseri umani una certa libertà di fronte al fenomeno totale della Comunicazione”.
Eco riteneva fondamentale la consapevolezza semiotica delle masse per resistere alla manipolazione mediatica. Tuttavia, riconosceva che “questa variabilità delle interpretazioni è stata casuale. Nessuno regola il modo in cui il destinatario usa il messaggio”. Per questo motivo assegnava all’intellettuale la funzione politica e militante di mediazione, per strappare la variabilità delle interpretazioni “alla casualità e consegnarla a un individuo per la cui ‘libertà di fronte al fenomeno totale della Comunicazione’ si lotta”.
Paolucci osserva che questa funzione emancipativa e critica trovava la sua realizzazione proprio nei giornali e nei media, e non nelle aule universitarie. Eco, ad esempio, aveva elencato dieci “regole di Manipolazione” delle notizie e affermava che “alcuni di questi saggi, come le letture dei manifesti pubblicitari o del telegiornale, possono essere raccontati la sera ai bambini: perché imparino a diffidare e a leggere dietro, attraverso, di fianco”.
L’intellettuale, secondo Eco, doveva impegnarsi a fianco delle masse anche se non attraverso le forme tipiche della militanza politica. Paolucci conclude che Eco fu capace di mantenere una funzione critica autonoma, senza dogmi o ideologie da seguire, con “una pratica della diffidenza quotidiana vagamente missionaria” e con una capacità di “leggere l’informazione senza farsi manipolare”. In questo risiede, secondo Paolucci, uno dei più grandi insegnamenti del pensiero di Umberto Eco.
Riferimento bibliografico: Claudio Paolucci Umberto Eco. Tra Ordine e Avventura (Feltrinelli, 2017)