Nelle scienze umane, le ricerche che adottano un linguaggio tecnico non sono sempre accolte con favore. Si sospetta che dietro la precisione terminologica si nasconda una forma di chiusura o di autoreferenzialità. La semiotica, in particolare, è spesso accusata di indulgere nel gergo o di rinchiudersi in un metalinguaggio che parla soprattutto di sé stesso.
Eppure, tale diffidenza non è del tutto ingiustificata. Il Dizionario ragionato di Greimas e Courtés, come pure gli scritti di Peirce, abbondano di invenzioni e di sperimentazioni terminologiche: in entrambi i casi la ricerca di scientificità sembra prevalere sull’eleganza della lingua naturale. Ma la questione non nasce oggi: già secoli fa l’uso di un termine tecnico in un contesto mondano poteva suscitare scandalo, come raccontano gli aneddoti sulla corte del Re Sole. Il problema del metalinguaggio, dunque, è antico e riguarda il modo in cui ogni sapere costruisce la propria lingua.
Parlare di metalinguaggio significa interrogarsi su come una disciplina descrive sé stessa, definisce i propri oggetti e determina le proprie categorie operative. Ci si può chiedere, ad esempio, se il linguaggio tecnico sia davvero indispensabile, o se alcune discipline — come la filosofia — possano continuare a esprimersi nella lingua naturale senza perdere la loro forza concettuale. E ancora: la semiotica produce davvero più metalinguaggio di altri campi, come la linguistica, la sociologia o la psicologia? Le differenze, in tal senso, rivelano atteggiamenti epistemologici diversi nei confronti della formalizzazione e dell’analisi.
Ogni linguaggio scientifico nasce da una genealogia. La costruzione del metalinguaggio semiotico si è nutrita di prestiti molteplici: dal lessico grammaticale e linguistico (attante, modalità, deissi, articolazione, sema), da quello logico per lo studio della significazione, da metafore geometriche e ottiche per descrivere la forma e la proiezione dei significati. In prospettive più recenti, l’influsso delle neuroscienze e delle teorie della percezione ha introdotto termini e modelli tratti dalle scienze naturali e dalla fenomenologia. Altri concetti, come isotopia, valenza o topologia, provengono dalle scienze fisiche e matematiche. Questi trasferimenti non sono mai neutri: ogni scelta lessicale produce effetti teorici e stilistici, modellando il modo stesso in cui si concepisce il senso.
La scelta di un metalinguaggio è una scelta epistemologica. Definire un linguaggio tecnico significa decidere in quale forma la realtà sarà descritta, e fino a che punto l’oggetto d’analisi sarà considerato esso stesso un linguaggio. È da qui che nascono le categorie e gli strumenti dell’analisi semiotica. Ma la stessa scelta comporta anche dei rischi. Quando un metalinguaggio trova largo consenso, può trasformarsi in una griglia applicata automaticamente: così la tradizione greimasiana ha finito talvolta per irrigidirsi in schemi di lettura standardizzati. All’opposto, un metalinguaggio costantemente rimesso in questione — come nei testi di Peirce — rischia di rimanere sul piano della riflessione teorica più che su quello dell’analisi effettiva. In entrambi i casi, la disciplina oscilla tra applicazione e autoriflessione, tra l’esigenza di generalizzare e quella di comprendere la singolarità dei fenomeni.
La riflessione post-strutturalista ha inoltre rimesso in dubbio la possibilità stessa di distinguere nettamente tra linguaggio-oggetto e metalinguaggio: nelle lingue naturali, questa separazione appare forse utopica, perché ogni termine conserva una componente riflessiva che lo lega al proprio uso. Il rischio, allora, è che il metalinguaggio, nel tentativo di garantire rigore, finisca per “fissare” la teoria, trasformando un modello descrittivo in una verità indiscutibile. Quando, ad esempio, si parla del “quadrato semiotico” come di un principio strutturale universale, un’ipotesi di lavoro diventa una forma di evidenza non falsificabile.
Il metalinguaggio non ha soltanto effetti teorici: produce anche conseguenze sociali e retoriche. Le terminologie definiscono appartenenze, stabiliscono chi può parlare e con quali parole, generano riconoscimento interno e distinzione esterna. In questo senso, i linguaggi scientifici diventano anche dispositivi di potere: le lotte per la legittimità terminologica — spesso implicite — decidono chi controlla il senso e chi ne resta escluso.
Un metalinguaggio, per la sua vocazione alla generalità, dovrebbe sempre autorizzare la propria decostruzione. Ma può anche assumere la forma di una burocrazia: ordinata, efficiente, capace di regolare i livelli del discorso, e tuttavia talvolta fine a sé stessa, più preoccupata di conservare la propria struttura che di permettere nuovi modi di pensare e di agire.
Resta allora una serie di domande aperte. Il tecnicismo e il gergo sono davvero inevitabili? L’eleganza o la praticità possono essere criteri validi per giudicare un linguaggio teorico? E, soprattutto, che cosa comporta per una disciplina il tentativo di aprirsi all’esterno, di comunicare oltre i propri confini? Ogni semplificazione linguistica ha un prezzo, ma forse è proprio in questa tensione tra rigore e chiarezza, tra definizione e dialogo, che una scienza del senso trova la misura del proprio compito.
Riferimento bibliografico: Éditorial – “Que peut le métalangage ?”, Signata, n° 4. Dossier dirigé par Pierluigi Basso Fossali, Jean-François Bordron, Maria Giulia Dondero, Jean-Marie Klinkenberg, François Provenzano, Gian Maria Tore
