La riflessione sull’interpretazione, già presente nella filosofia antica, si sviluppa lungo due direzioni parallele: da un lato la teoria del segno, dall’altro la teoria del linguaggio. Entrambe concorrono a costruire un quadro complesso in cui si articola il rapporto tra significati, segni e realtà.
Nel primo caso, l’interpretare è visto come un ragionamento inferenziale che consente di risalire, a partire da un fenomeno manifesto, alla conoscenza di qualcosa di non percepibile. Nel secondo, interpretare significa attribuire un significato alle espressioni linguistiche, stabilendo un legame tra parole, pensiero e realtà.
Divinazione e medicina: saperi congetturali
Nelle pratiche antiche, come la divinazione mesopotamica, si sviluppa una forma di sapere che interpreta segni visibili come manifestazioni di realtà invisibili. A differenza della divinazione oracolare ispirata, quella tecnica si basa sull’osservazione di fenomeni esterni e sull’elaborazione di codici sistematici. Già nel II millennio a.C. si registrano segni anche di casi solo ipotetici (come bambini nati con fattezze animali), con un repertorio che anticipa le logiche delle tassonomie moderne.
Analogamente, nella medicina ippocratica, il ragionamento inferenziale si afferma come alternativa alla medicina popolare. I sintomi vengono considerati segni di una causa interna, ipotizzata e poi verificata su più casi. Quando un’ipotesi è confermata, il sintomo diventa un segno certo della malattia. Il ragionamento si basa su forme logiche come il modus tollens: “se p allora q; ma non-q, dunque non-p”.
Aristotele: tra logica e linguaggio
Aristotele riprende e sistematizza il modello implicativo nelle sue opere logiche, come i Primi Analitici e la Retorica. Descrive il segno come un rapporto di implicazione logica: “p implica q”. Tuttavia, non è chiaro se il segno per Aristotele coincida con p o con q. Secondo alcuni interpreti, il segno è q, ovvero ciò che permette di inferire p. Ad esempio, dato “se c’è fumo, c’è fuoco”, il fumo è segno del fuoco.
Ma Aristotele distingue nettamente tra segni e parole. Le parole non sono segni, bensì simboli (symbola), e il loro funzionamento è regolato da un sistema triadico: suoni della voce → affezioni dell’anima (pensieri) → oggetti esterni. Il rapporto tra suoni e pensieri è convenzionale; quello tra pensieri e oggetti è motivato.
Gli Stoici: la svolta linguistica del lektón
Con la filosofia stoica emerge un importante elemento di saldatura tra teoria del linguaggio e teoria del segno: il lektón. Inteso come “dicibile” o “esprimibile”, il lektón è un’entità incorporea che rappresenta lo stato di fatto del mondo, espresso linguisticamente in una proposizione.
Sesto Empirico lo descrive come ciò che si situa tra il significante (la voce) e ciò-che-si-trova-a-esistere (l’oggetto reale). È il significato oggettivamente espresso dalle parole, e non ha sede nella mente degli interlocutori, ma nel linguaggio stesso.
Secondo gli Stoici, le proposizioni sono atti logici organizzati secondo una connessione formale, fondata su rapporti tra antecedente e conseguente. Anche il linguaggio, dunque, assume la forma logica del segno. Le proposizioni verbali portano significato (il lektón) che consente di trarre conoscenza del mondo.
In questo sistema, un segno è interpretato quando si identifica lo stato di cose che giustifica logicamente l’enunciato. L’interpretazione consiste nella comprensione della realtà attraverso la forma proposizionale del linguaggio. Come osserva Umberto Eco, in questa prospettiva “i segni affiorano solo in quanto sono esprimibili razionalmente attraverso gli elementi del linguaggio”.
Riferimento bibliografico: Valentina Pisanty – Roberto Pellerey, Semiotica e interpretazione, Bompiani, Milano 2004