Nel contesto della riflessione semiotica contemporanea, la nozione di quotidianità si impone come un oggetto teorico complesso, non riducibile né alla semplice ripetizione del vissuto né a un repertorio di pratiche stabilizzate. Gianfranco Marrone propone di riconsiderare radicalmente questa categoria attraverso una lettura incrociata di due percorsi teorici: quello della semiotica delle pratiche e quello – meno esplorato – che affonda le radici nella riflessione filosofica di Maurice Blanchot.
Secondo Blanchot, il quotidiano sfugge proprio in quanto è privo di soggetto. Non si tratta solo dell’assenza di un soggetto enunciante, ma di una più profonda mancanza di soggettività narrativa. Il quotidiano, scrive Blanchot, è la tensione tra l’assenza e il troppo pieno, tra l’insignificante e il sovraccarico di senso, tra la banalità e l’assoluto. In questa continua oscillazione, il quotidiano non si lascia mai catturare: si sottrae alla riflessione cosciente e si manifesta, paradossalmente, solo nel momento in cui ne siamo già usciti.
Per Marrone, questa concezione è estremamente rilevante per una teoria semiotica dell’esperienza. Il quotidiano non è, come voleva la sociologia fenomenologica, il luogo della familiarità, della prossimità e del senso comune. E neppure è, come sosteneva de Certeau, lo spazio delle tattiche inventive del fare. Al contrario, nella lettura di Blanchot, esso rappresenta il regno dell’indifferenziato, dove il soggetto non ha nome, non ha volto, non possiede nemmeno un’identità sociale determinata.
Questa assenza di soggetto si riflette nella parola quotidiana, quella del “si dice”: un linguaggio privo di enunciatore, una parola che circola senza essere veramente pronunciata. Marrone ne sottolinea la valenza semiotica: il quotidiano si configura come uno spazio discorsivo dove l’anonimato domina, dove ogni eroismo viene dissolto, dove l’identità stessa si perde. È un luogo in cui non si dà valore – né autentico né inautentico – perché ogni tentativo di attribuire senso si dissolve nella neutralità del “si”.
Sul piano narrativo, questa condizione mina alla radice l’idea di soggettività come prodotto di una sequenza coerente di azioni e passioni. La narrazione, infatti, presuppone un orientamento, un progetto, un’identità in costruzione. Il quotidiano, invece, è forza disgregatrice: rifiuta ogni valore, svuota la forma dell’eroismo, nega la possibilità stessa di una costruzione narrativa del sé.
Marrone suggerisce così che il quotidiano, più che essere una sostanza dotata di senso, si configuri come una protoforma della significazione. Non è un contenuto esperienziale determinato, ma la condizione di possibilità stessa del senso. Non precede solo ogni narrazione, ma la rende possibile nel suo stesso sfuggire. In questo modo, il quotidiano non è da intendersi come un oggetto dell’esperienza, ma come ciò che sta prima o dopo ogni esperienza possibile, situandosi al margine e al cuore della significazione.
Dal punto di vista semiotico, questa prospettiva apre una via inedita: quella di considerare il quotidiano non come un contenuto da analizzare, ma come un campo formale entro cui la significazione può emergere. La noia, l’indifferenza, l’anonimato, l’oscillazione tra senso e non-senso non sono residui da espellere, ma tracce fondamentali del lavoro del senso. In questa zona liminale – né testo, né racconto, né azione – la semiotica trova un punto di osservazione privilegiato sul funzionamento stesso della cultura.
Riferimento bibliografico: Gianfranco Marrone, Un nodo teorico: narrazione, esperienza, quotidianità, in Un nodo teorico. Narrazione, esperienza, quotidianità, a cura di Gianfranco Marrone, Associazione Italiana di Studi Semiotici.