Per presentare il concetto di segno in una prospettiva dinamica, Anna Maria Lorusso introduce il pensiero di Charles Sanders Peirce, che, più di ogni altro, ha teorizzato il segno come relazione. L’autrice riporta l’impostazione peirceiana secondo cui “tutto il pensiero può essere concepito come segno”, perché “la vita è semiosi”: un’ininterrotta produzione di segni generati da altri segni e sempre aperti a nuove interpretazioni.
Questa visione implica che ogni segno sia inserito in una catena infinita: “una fuga illimitata di interpretazioni”. Le interpretazioni, a loro volta, possono fissarsi temporaneamente in convenzioni, codici e stereotipi, che rientrano nel circolo della semiosi e restano “potenzialmente sempre disponibili a nuove declinazioni”.
Secondo Lorusso, per Peirce il segno non è mai autosufficiente, ma è “essenzialmente rinvio”. Il segno è tale solo se “sta al posto di qualcos’altro, sotto qualche rispetto, per un pensiero che lo interpreta”. Questa struttura triadica è cruciale: ogni segno implica un representamen, un oggetto e un interpretante. Il representamen “sta al posto di qualcosa” (l’oggetto) “sotto qualche rispetto”, ed è tale solo in funzione di un interpretante che lo interpreta.
La semiologa chiarisce che, in questa prospettiva, “tutto può diventare segno di qualcosa”. Una parola, un comportamento, un oggetto o un concetto possono acquisire valore segnico se interpretati in un certo modo. Lorusso porta l’esempio del concetto di “libertà”, che può essere segno se, “per la mia mente”, rinvia a una catena di pensieri, ad esempio sulla condizione dei prigionieri di guerra. Analogamente, anche una musica può agire come segno: “l’inno di Mameli che sta, rispetto al problema dell’identità nazionale, al posto di ‘italiano’ per gli spettatori che guardano una partita”.
Le parole sono segni evidenti, ma lo sono anche “certi comportamenti”. I gesti italiani che esprimono stupore, interrogativi o stanchezza ne sono un esempio. Lorusso insiste sul fatto che “i segni non hanno una materia definita e una significazione fissa”, ma “una identità processuale, contestuale e interpretativa”.
Peirce definisce l’interpretante come l’elemento che stabilisce la relazione tra un oggetto e un representamen. Può trattarsi di una regola, di un disegno, di una parola, persino di un comportamento. Per esempio, l’autrice spiega che “se abbiamo un animale a strisce da una parte (oggetto) e la parola ‘zebra’ dall’altra (representamen), e non parliamo italiano”, abbiamo bisogno di un interpretante — un dizionario, un’immagine, un peluche — che ci faccia comprendere la connessione tra le due entità.
In un esempio emblematico di Peirce, il generale che comanda “Dietro-front!” genera un comportamento nei soldati: “il fatto di cambiare senso di marcia potrà essere considerato l’interpretante del representamen ‘Dietro-front!’ e dell’oggetto ‘volontà del generale di cambiare direzione’”. Questo comportamento non è una semplice reazione meccanica, ma l’effetto di un’interpretazione. Come conclude Lorusso, “il comportamento dei soldati […] è il risultato della comprensione, cioè della mediazione e dell’interpretazione, di un segno”.
Ogni interpretante seleziona un aspetto diverso dell’oggetto. Se spieghiamo cos’è una zebra con un disegno, ne evidenziamo le strisce; se usiamo un peluche, sottolineiamo la somiglianza con un cavallo. L’interprete modifica, arricchisce, moltiplica: “la catena degli interpretanti è infinita”, scrive Lorusso, e per Peirce “la semiosi è illimitata”.
Riferimento bibliografico:
Anna Maria Lorusso. Semiotica. 2005 Raffaello Cortina Editore