Nel tentativo di chiarire le condizioni più elementari della significazione, Umberto Eco si confronta con la nozione di icona così come formulata da Peirce. L’icona, nella semiotica peirceana, è un segno che rimanda al proprio oggetto in virtù di una somiglianza, non per convenzione o per causalità. Ma questa definizione, già problematica, si complica ulteriormente se si cerca di individuare un’icona primordiale, una forma di iconismo che preceda l’articolazione segnica vera e propria.
Eco riprende la categoria peirceana della Firstness (primità), che corrisponde all’esperienza di una qualità semplice, non relazionale, non interpretata. È il livello dei qualia, delle pure sensazioni: il rossore di un rosso, il sapore amaro, un suono isolato. L’icona primaria si situa a questo livello: è somiglianza non ancora tematizzata, non ancora posta in relazione con un oggetto distinto.
L’iconismo primario è, secondo Eco, ciò che rende possibile l’emergere della semiosi: non è ancora un segno, ma è già una disposizione alla significazione. Quando un organismo riconosce una configurazione visiva come simile a un’altra che ha già incontrato, senza che vi sia ancora un concetto o un nome, agisce su base iconica.
Ma l’icona, in questa accezione elementare, non ha bisogno di “rassomigliare” visivamente: ciò che conta è la possibilità di stabilire una continuità, una compatibilità strutturale. Eco parla infatti di adeguazione più che di somiglianza: l’icona è un dispositivo che rende possibile la messa in forma, la figurazione, anche in assenza di immagini.
Questo principio vale anche nei casi più estremi della comunicazione biologica. Eco cita esempi tratti dalla biologia molecolare: molecole che si legano a recettori in virtù della loro forma compatibile, enzimi che riconoscono substrati non perché “sanno cosa sono”, ma perché si incastrano. È una semiotica minima, una proto-semiotica. E sebbene non implichi coscienza, intenzione o interpretazione consapevole, essa mostra che la semiosi può iniziare molto prima del linguaggio.
Eco distingue con attenzione tra questa soglia inferiore della semiosi e le forme superiori della significazione. In un secondo momento, l’icona può diventare immagine, diagramma, metafora. Ma a monte, ciò che rende possibile ogni costruzione semantica è la presenza di un campo di affinità, un terreno di compatibilità percettiva o funzionale che fonda la possibilità del riconoscimento.
Il problema della somiglianza, però, è tutt’altro che semplice. Eco mostra che non esiste una somiglianza “in sé”: ogni somiglianza è ritagliata in base a un interesse, a un contesto, a una prospettiva. Dire che qualcosa somiglia a qualcos’altro è già un atto di selezione, una decisione interpretativa. L’icona, anche nel suo stato primario, dipende da un orientamento.
Eppure, proprio questo parziale disancoramento dal linguaggio rende l’icona fondamentale per la teoria della conoscenza. L’iconismo primario non garantisce la verità, ma permette che qualcosa cominci a significare. È la soglia in cui l’esperienza grezza si organizza in una figura, in cui la continuità del mondo si spezza in segmenti interpretabili.
In questa prospettiva, Eco rilancia la proposta di studiare una soglia inferiore della semiotica, che comprenda quei fenomeni in cui non vi è ancora segno, ma già si intravede una forma. È il livello in cui la realtà inizia a proporsi come interpretabile, in cui qualcosa colpisce, attira, resiste, si offre alla figurazione.
“L’icona primaria è ciò che, pur non significando ancora, già permette di cominciare a vedere qualcosa come qualcosa.”
Riferimento bibliografico: Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco, Milano, Bompiani, 1997.