Paolo Fabbri mette in discussione uno degli assunti più radicati della semiotica tradizionale: l’idea che il segno sia un’unità omogenea e analizzabile in sé. Il concetto stesso di “segno”, afferma, rischia di trasformarsi in un ostacolo epistemologico.
Secondo Fabbri, la nozione corrente di segno si fonda su una concezione lessicale del significato. Quando si parla di segni in una cultura, spesso li si intende come equivalenti delle parole: unità discrete dotate di un significato stabilito, analoghe a un dizionario. È una visione che riduce la semiotica a una forma di lessicologia culturale, e che assimila i sistemi di significazione a insiemi finiti e classificabili di elementi semantici preesistenti.
Ma — osserva Fabbri — nessun linguista accetterebbe l’idea che il linguaggio è fatto di parole. Analogamente, nessun semiologo dovrebbe pensare che i sistemi di significazione sono fatti di segni, intesi come entità precostituite. La semiotica dovrebbe invece interrogarsi sui modi in cui una certa forma significante permette di produrre sistemi e processi di significazione. L’analisi va spostata dalle entità agli effetti, dalle unità ai funzionamenti.
In questo senso, la semiotica che ragiona ancora in termini di segni si ferma alla soglia dell’interpretazione, come nella barzelletta dell’aspirante scrittore: «Ho già tutte le parole, mi basta solo metterle insieme». La conoscenza del lessico non è ancora discorso; l’elenco delle unità non spiega i processi che le organizzano.
A questa impostazione si accompagna l’idea, altrettanto problematica, di codice. Nei modelli semiotici ispirati all’informazionismo, il codice è una griglia di regole che preesiste alla comunicazione e ne regola la decodifica. Fabbri mostra come questa visione abbia generato un malinteso teorico e politico. Negli anni Settanta, l’idea che il codice fosse un’imposizione arbitraria ha alimentato le retoriche della decostruzione, intesa come gesto di liberazione da un vincolo esterno.
In questo contesto, la decodifica non è più interpretazione, ma rottura dei codici, abbattimento dell’ordine imposto. Così, osserva Fabbri, una visione semplicistica della significazione ha finito per produrre una schiera di detrattori della semiotica, i quali — paradossalmente — hanno radicalizzato una sua immagine distorta. Mentre Eco, nella fase iniziale, sosteneva l’“opera aperta”, l’idea cioè di una catena semiosica infinita, i decostruzionisti hanno estremizzato tale apertura, sostenendo che su ogni testo si può dire qualsiasi cosa.
Fabbri ricorda la reazione di Eco: «Bisogna introdurre delle sbarre di grafite dentro la centrale nucleare». Una metafora per dire che, senza criteri di controllo, la proliferazione dei significati rischia di trasformarsi in un disordine babelico. È da qui che nasce la necessità — sentita da Eco e da molti semiologi — di reintrodurre una dimensione razionale capace di limitare l’interpretazione aberrante.
Ma, secondo Fabbri, nemmeno questa risposta è soddisfacente. Continuare a ragionare in termini di segni, codici, regole e limiti significa restare prigionieri di un modello teorico insufficiente. Occorre ripensare radicalmente il concetto stesso di significazione. I segni, afferma, non sono percepibili come tali. Né attraverso un lessico, né attraverso un’enciclopedia. Il vero oggetto della semiotica sono i sistemi e i processi di significazione: dinamiche complesse che emergono nel momento stesso in cui il senso si produce e si struttura, in relazione a forme espressive e a contesti d’uso.
L’invito, allora, è a spostare lo sguardo: dai segni agli oggetti, dai codici alle pratiche, dai lessici ai processi. Una svolta teorica che mette in discussione le fondamenta stesse della semiotica classica e che apre la strada a modelli più articolati, capaci di cogliere la molteplicità delle forme e dei regimi del senso.
Riferimento bibliografico: Fabbri, P. (1998). La svolta semiotica. Italia: Laterza.