Nella tradizione strutturalista, il segno è stato concepito come arbitrario, discreto e distintivo. Tuttavia, Paolo Fabbri propone di rovesciare questa immagine riduttiva, mostrando come l’affettività e la corporeità richiedano un modello semiotico capace di integrare la continuità, la motivazione e l’analogicità. Questa riflessione prende avvio da un ambito spesso trascurato dalla linguistica: le interiezioni.
Le interiezioni come ah, oh, uh, eh non sono distintive, né categoriali: non legano né definiscono, ma esprimono emozioni. Proprio per questo sono rimaste ai margini della teoria. Eppure, afferma Fabbri, è qui che si manifesta la dimensione affettiva del linguaggio nella sua forma più evidente. La continuità emotiva si rivela nel tono, nell’intonazione, nei cosiddetti “gesti vocali”: segmenti del linguaggio che non appartengono alla logica della discrezione, ma alla gradazione espressiva.
L’intonazione — ricorda Fabbri citando Dwight Bolinger — è fondamentale non solo per la frase, ma per la segmentazione stessa del linguaggio. E questo criterio intonativo ha a che fare, in ultima analisi, con l’emozione. È una tesi imbarazzante per la linguistica strutturale, ma decisiva per la semiotica della corporeità: «l’emozione ha qualcosa del gestuale e dell’iconico».
In questo contesto si inserisce il problema del linguaggio dei sordomuti, o sign language. Fabbri ne evidenzia la rilevanza semiotica: un linguaggio interamente visivo, che possiede sintassi, grammatica, capacità di figurazione. L’idea che i sordomuti possano capirsi ovunque solo perché “parlano per immagini” è falsa: esistono dialetti, idiomi locali, differenze sistematiche. Alcuni segni sono fortemente motivati (un pugno chiuso può significare “potere” o “testa”), altri più astratti. Anche i verbi, come prendere, sono costruiti su figurazioni iconiche ma non per questo intuitive.
Questo sistema linguistico mostra che anche il gesto può accedere alla grammaticalità. Il gesto non è solo mimico, ma può essere sintattico, capace di strutturare la comunicazione come qualsiasi lingua verbale. Esemplare è il modo in cui i sordomuti gestiscono i turni di parola: alzano le mani per parlare, le abbassano per cedere il turno. È un meccanismo conversazionale, ma incarnato — letteralmente.
Fabbri definisce questi atti come metafore incorporate. Mentre nell’intonazione diciamo che il tono “si alza” o “si abbassa” in modo figurato, il gesto nei segni lo fa davvero, fisicamente. Questo legame diretto tra forma espressiva e significato ci obbliga a ripensare la relazione tra verbalità e gestualità: il linguaggio naturale, suggerisce Fabbri, potrebbe essere co-evoluto col gesto, e non sviluppato separatamente come suppone la visione logocentrica.
Le implicazioni di questa ipotesi sono radicali: decostruiscono l’opposizione tra linguaggi digitali e linguaggi analogici, tra il discreto e il continuo, tra il simbolico e il motivato. La gestualità dei sordomuti dimostra che un linguaggio visivo può produrre tutti i significati di un linguaggio verbale, con pari capacità sintattica e referenziale.
Si tratta dunque di un vero e proprio esperimento semiotico naturale. Il gesto, l’immagine, il ritmo e l’estesia non sono ornamenti: sono modalità primarie della significazione. Assumerle nel cuore della teoria semiotica significa abbandonare l’arbitrio come assioma assoluto, e riconoscere che il senso non nasce soltanto dalla combinazione di unità discrete, ma anche dalla forma, dalla corporeità, dal visibile.
Riferimento bibliografico: Fabbri, P. (1998). La svolta semiotica. Italia: Laterza.